Dovette fare un poderoso sforzo di memoria Michail Bulgakov quando si decise a riscrivere “Il maestro e Margherita”, ovvero il romanzo che lo avrebbe consacrato alla fama letteraria. Sempre sotto il tallone di ferro del regime sovietico, che sistematicamente ne censurava le opere, lo scrittore russo aveva infatti gettato nel fuoco, in un attacco misto di ira e frustrazione, i manoscritti dell’opera, perché, in quanto perseguitato, temeva che ciò che vi aveva scritto non avrebbe visto mai la luce. Ma “i manoscritti non bruciano”, come egli stesso dichiara in un passo nevralgico dell’opera: non c’è divieto o imposizione che possano cancellare le parole vergate, condannandole all’’oblio. Ecco allora che sul senso di frustrazione e impotenza prevale la consapevolezza della forza, impossibile da imbrigliare, della verità. Sostenuto da questo convincimento, quello sforzo di memoria è stato coronato da successo. Le parole che erano state scritte, pur divorate dal fuoco, ritornano sulla pagina, e i manoscritti riacquistano nuova vita: il romanzo “Il maestro e Margherita”, uno dei capolavori della letteratura russa e del panorama cultura europeo, è salvo. Riscritta dunque più volte, tra il 1928 e il 1940, l’opera fu pubblicata postuma, nel 1966. Venne poi tradotta in 75 lingue. Essa è incentrata sulle persecuzioni politiche inflitte dalle autorità sovietiche allo scrittore e drammaturgo soprannominato il “Maestro”, il quale è animato e dominato da due forti sentimenti: l’amore per Margherita e il desiderio di riscatto – che viene esaudito grazie al suo legame con il Diavolo che un giorno lo viene a visitare – nei riguardi dell’Unione Sovietica arroccata nel suo freddo e arido ateismo. Il Diavolo non è visto in opposizione a Dio, ma è concepito come affilato strumento per colpire e punite – nei panni del professore di magia nera Woland – corruzione e meschinità, sfrenate e dilaganti nella società. A questo filone narrativo se ne intreccia un altro, che rimanda a Gerusalemme e al periodo pasquale durante il quale il procuratore romano Ponzio Pilato è chiamato a giudicare Gesù. Bulgakov scava nella coscienza di Pilato e ne denuncia i tormenti per non aver impedito la condanna a morte di quel “mite predicatore”. Attraverso le complesse dinamiche e sfaccettature di un romanzo di respiro vasto e robusto, mirante a dare un affresco esaustivo di un’umanità alla ricerca affannosa di un senso plausibile del reale, si fa strada e quindi s’impone il tema ispiratore: il rapporto tra il bene e il male. Attorno a questo legame gravitano questioni di fondamentale urgenza, quali la responsabilità della persona verso la verità e l’impegno a sapere incarnare il valore della libertà quando essa è compromessa e negata dalle autorità costituite. Il romanzo – che presenta tracce evidenti del “Faust” di Goethe – si presta a varie chiavi di lettura: da allegoria mistico-religiosa a satira socio-politica, non solo della Russia Sovietica ma anche della vita moderna in generale, immiserita da superficialità e vanità. Il romanzo di configura quindi come un pamphlet al vetriolo diretto contro l’élite intellettuale dell’epoca. Tale combriccola, riunita nel movimento denominato Massolit, è formata da poeti mediocri, da critici meschini e da intellettuali pomposi e sicofanti. “Il maestro e Margherita” è anche un romanzo di formazione: al riguardo è centrale la figura di Ivan Bezdomnyj, che da letterato mediocre e incolore diventerà, dopo un severo ed edificante tirocinio, un degno e stimato discepolo del “Maestro”. Il romanzo riscosse il convinto plauso di Eugenio Montale, che lo definì “un miracolo che ognuno deve salutare con commozione”. Bulgakov, osserva il premio Nobel, si nutre della linfa della migliore letteratura russa, percorsa da quella vena messianica riscontrabile in certe figure di Gogol e Dostoevskij che porta a confrontarsi “con quel pazzo di Dio il quale è il quasi immancabile comprimario di ogni grande melodramma russo”. Il piano demonico potrebbe essere la cortina fumogena, rileva Montale, che occulta e rende accettabile, anche dai censori, la feroce satira che pervade il libro. Il piano reale, quello degli eventi narrati, riveste un significato allegorico. “Esso ci dice – scrive Montale – che una massa di anime morte, non più servi della gleba ma servi di un sistema disumano, può essere avvinta da un grande ciarlatano che sappia recitare bene la sua parte. E buon ultimo, ma preminente, il fondo mitico-religioso, l’invisibile legame che unisce Lucifero al Creatore, qualcosa di come una dipendenza e una necessità di cui lascio ai teologi, e agli eretici, il compito di indagare la natura”. Montale quindi riconosce nell’arte narrativa di Bulgakov una “sottigliezza” che tanto più ci avvicina al Cristo quanto più lo fa reticente e lo induca e a sconfessare Matteo dicendo che non lo conosce e che quell’uomo sta scrivendo cose da lui non dette”. La grandezza di Bulgakov non si specchia solo nel suo romanzo più noto, ma sprigiona i suoi talenti anche in altre opere, quali “Cuore di cane”, “La corsa”, “Il civico n.13”, il romanzo “La guardia bianca” da cui fu poi tratta la commedia “I giorni dei Turbin”. Tale commedia fu molto apprezzata da Stalin che stimava Bulgakov, pur sapendolo ostile al regime. Da un lato, la predilezione di Stalin nei suoi riguardi gli salvò la vita (altri scrittori, ribelli alle autorità di Mosca, furono imprigionati e uccisi durate i famigerati anni del terrore); dall’altro, la caustica satira che irrorava la sua produzione letteraria gli impedì di ottenere, come agognava, il permesso di espatriare. I talenti della sua grandezza consistevano principalmente nella capacità di denunciare i mali della società e di sferzare chi ne era responsabile tenendosi sempre in equilibrio tra reale e irreale, tra illusione e pragmatismo, tra verità e menzogna, riconoscendo in tale intrigante complementarità la misura esemplare per giudicare con obiettività il mondo, in continua lotta tra la luce del bene e le tenebre del male. E certo non mancano, nella sue opere, stille di saggezza popolare compendiate in frasi illuminanti e repentine. Come quella che fregia “Cuore di cane”, che così recita: “Solo chi non ha fretta ha tempo di fare tutto”.