E’ sicuramente particolare la prefazione che Italo Calvino scrisse nel 1964 per una ristampa del suo primo romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno”. Lo scrittore, infatti, più che parlare della sua opera (come era lecito attendersi), si sofferma ad analizzare il clima in cui nacque il neorealismo, come pure i problemi che erano chiamati ad affrontare coloro che intendevano fare luce sugli aspetti più delicati complessi della società italiana.
Egli riconduce il fenomeno del neorealismo ad una “esplosione letteraria” , la quale, prima che un fatto d’arte, fu “un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo”. Quindi ricorda: “Avevano vissuto la guerra, e noi più giovani, che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano, non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi di una sua eredità”.
Non si trattava di facile ottimismo o di gratuita euforia. Quello di cui ci si sentiva depositari era “un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero”, accompagnato dalla capacità di vivere “lo strazio” e “lo sbaraglio”.
L’essere usciti dall’esperienza traumatica della guerra, che non aveva risparmiato nessuno, aveva stabilito “un’immediatezza di comunicazione” tra lo scrittore e il suo pubblico. In questa temperie irrompe il neorealismo che si fa carico di raccontare, in forma d’arte, le storie di ciascuno e di tutti. Ognuno, infatti, aveva vissuto “vite irregolari e drammatiche”. Definitivamente spento il fragore delle armi, la gente, rileva Calvino, era state presa dalla “smania” di raccontare. In particolare ciò avveniva nei treni, che avevano ripreso a funzionare. “Ogni passeggero – scrive – raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse”. E così ogni avventore ai tavoli delle “mense del popolo”, ogni donna nelle code ai negozi. “Il grigiore delle vite quotidiane sembrava allora “cosa d’altre epoche”. Ci si muoveva “in un multicolore universo di storie”.
Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale. “Alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori – osserva – si aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un’espressione mimica. Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte attorno al fuoco, acquistavano già uno stile, un linguaggio, un umore come di bravata, una ricerca di effetti angosciosi o truculenti”.
Per Calvino, dunque, il neorealismo “non fu una scuola”, ma fu “un insieme di voci”, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche delle “Italie fino ad allora più inedite per la letteratura”. Senza la varietà di Italie sconosciute l’una all’altra, o che si supponevano sconosciute, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, “non ci sarebbe stato il neorealismo”.
Lo scrittore tiene a precisare che il neorealismo “non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco”. La caratterizzazione locale, infatti, voleva dare sapore di verità ad una rappresentazione in cui doveva riconoscersi “tutto il vasto mondo”. Di conseguenza “il linguaggio, lo stile, il ritmo avevano tanta importanza per noi – sottolinea Calvino -, per questo nostro realismo che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo. Ci eravamo fatti una linea, ossia una specie di triangolo (rappresentato da I Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi) da cui partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e del proprio paesaggio”.