A cambiare la vita di Anton Cechov fu un incontro casuale. Era il 1882 quando s’imbattè nello scrittore Lekjin, direttore di “Schegge”, settimanale umoristico, che era alla ricerca di collaboratori che avrebbe pagato due copechi in più degli altri giornali. Angustiato dalle ristrettezze economiche, Anton accettò l’offerta che gli venne fatta e nell’arco di pochi mesi divenne la penna più seguita del settimanale. Gli fu anche affidata una rubrica, “Frammenti di vita moscovita”: scenette prese dal vivo, personaggi bislacchi, macchiette traboccanti di brio, nonché pettegolezzi sulla vita culturale dell’epoca. Questa “commedia umana” era gestita da Cechov lungo due direttive: pensosa malinconia, venata di profonda rassegnazione, e garbata ironia, ma non per questo meno affilata e pungente. Questa duplice dimensione avrebbe poi caratterizzato tutta la produzione letteraria dello scrittore. Ne sono testimonianza le due opere considerate i suoi capolavori: “Tre sorelle” (1900) e “Il giardino dei ciliegi” (1903). “Tre sorelle” è una dissertazione sul tema della felicità e dell’infelicità: il discrimine che le separa è a sua volta sospeso fra tempo allegro e tempo crepuscolare. Olga, Masa e Irina, che conducono una vita monotona perché recluse in una remota casa della campagna russa, coltivano lo stesso sogno: ritornare a Mosca, dove avevano abitato durante la loro infanzia spensierata. Nel corso della narrazione si avvicendano motivi per sperare che qualcosa di positivo accada, ma le tre donne rimangono sistematicamente deluse. L’opera non contempla una vera e propria azione. Il tempo si trascina tra conversazioni talora senza senso, talvolta aperte ai temi della filosofia dell’esistenza. Ma il dato più significativo è dato dalla volontà dell’autore di non inquadrare l’opera nel genere drammatico. Egli non voleva che il testo varcasse la soglia del dramma inteso in senso classico. Eloquenti, al riguardo, sono le raccomandazioni che Cechov stesso dette all’attrice che impersonava Masa. “Non fare in nessun atto il viso rattristato. Stizzito sì, ma non rattristato” le ingiunse lo scrittore che poi chiosò: “La gente che da tempo porta in sé una pena, e vi si è abituata, fischietta soltanto e rimane soprappensiero”. Ed è altrettanto significativo il suo lamento presso Stanislavskij riguardo al fatto che il regista intendeva porre “Tre sorelle” su un piano esclusivamente drammatico, quando, a percorrere l’opera è, in filigrana, una vera ironica incaricata di disciplinare un pathos che, se lasciato sbrigliato, avrebbe potuto debordare, a detrimento dell’equilibrio dell’opera. Ne “Il giardino dei ciliegi”, specchio della decadenza dell’aristocrazia russa, l’ironia sottile è data da un paradosso derivante dal fatto che tutti i protagonisti soffrono per la possibile perdita del giardino, ma nessuno di loro fa nulla per salvarlo. Un’inazione che richiama echi di Amleto, che vorrebbe agire per vendicare il padre, eppure rimane fermo. Una stasi che Shakespeare suggella sentenziando: “La ragione ci fa codardi tutti”. Nell’opera il passaggio del testimone, nella gerarchia sociale, dalla nobiltà alla borghesia è simboleggiato, tramite una squisita eleganza narrativa, da quei sordi colpi d’ascia che abbattono gli alberi di ciliegio: cadono gli alberi, si chiude un’epoca. La carriera di Cechov, per giunta condizionato da una salute cagionevole, conobbe alti e bassi, e soffrì di grossolane incomprensioni. La prima de “Il gabbiano” (1895) fu un fiasco clamoroso. In realtà lo stesso autore non ne era soddisfatto. All’amico Suvorin scrisse: “Dopo averlo riletto, mi rendo sempre più conto che non sono un drammaturgo. Non fatelo leggere a nessuno”. Gli attori, pur di rinomata fama, non gli dettero una mano rendendo enfatica, con un’interpretazione sopra le righe, un’opera che invece nasceva, e voleva rimanere tale, sobria e senza fronzoli. Solo dopo altre rappresentazioni “Il gabbiano” – metafora della libertà dell’artista in cerca di ispirazione per librarsi, con la sua opera, al di sopra della mediocrità e della grettezza terrene – venne apprezzato nella giusta misura, fino a diventare uno dei testi teatrali più rappresentati nel mondo.