Correva l’anno 1911. I sei esploratori che componevano la spedizione “Terra Nova”, guidata da sir Robert Falcon Scott, erano rimasti intrappolati in una grotta di ghiaccio nell’Antartide. Avevano lanciato l’allarme: i soccorritori sarebbe venuti a recuperarli, ma ci sarebbero voluti lunghi giorni e lunghe notti. In realtà quella spasmodica attesa si rivelò più estesa del previsto: in quell’emergenza estrema vissero per sette, terribili mesi. Si trattava, dunque, di sopravvivere in attesa di buone nuove. Le scorte di cibo avrebbero cominciato a scarseggiare e occorreva pensare al modo migliore di passare il tempo senza farsi prendere dal panico, mantenendo equilibrio e lucidità.
Uno degli esploratori aveva nello zaino una copia di “David Copperfield” di Charles Dickens. L’edizione era del 1910 (il romanzo era uscito a puntate nel maggio del 1849). Ogni sera, nella febbrile attesa dei soccorsi, veniva letto un capitolo del libro: una lettura fatta a turno, ad alta voce. Quella copia del romanzo – a parte il decisivo intervento delle squadre di soccorso – contribuì a salvare la vita degli esploratori, sottraendoli al rischio di possibili gesti disperati. Ancora oggi quel libro reca con sé le impronte digitali nere, “eredità” di quelle mani macchiate dalle lampade a olio di foca.
Quel manipolo di avventurosi non raggiunse mai il Polo Sud, ma riuscì a salvarsi. Costretti a nutrirsi di pinguini e di foche, gli uomini non disponevano di cambi di vestiario, e ben presto cominciarono ad accusare disturbi fisici. Anzitutto fu la dissenteria a colpirli brutalmente, mentre le scorte di medicine ben presto andarono esaurite. Ma avevano “David Copperfield”.
“Non fosse stato per quel capolavoro, saremmo diventati tutti matti”, annotò nel suo diario, nel 1914, Raymond Priestly, uno dei membri della spedizione. Quindi aggiunse: “Quel libro divenne per tutti noi un nutrimento speciale. Ci distraeva dall’urgenza di mangiare, ci faceva sognare, e contribuì anche a rendere ancora più forte il legame tra gli uomini della spedizione”. Quelle pagine furono lette con inedita passione, al lume di candela, sotto l’egida rassicurante di una fiammella che lingueggiava: anch’essa era sentita come una preziosa alleata per fugare il panico e vincere le minacciose tenebre della notte.
Per evitare il congelamento, gli esploratori indossavano robusti e scomodi guanti che andavano però tolti per girare le pagine del libro: se li avessero tenuti, avrebbero potuto rovinare quelle pagine, non solo sgualcendole, ma addirittura strappandole. Ma i sei uomini non avrebbero mai voluto correre questo rischio: di conseguenza, chi era di turno alla lettura si toglieva il guanto, destro o sinistro, con studiata lentezza per procedere alla delicata operazione di girare la pagina. Un’operazione così semplice e naturale era diventata, in quella particolarissima circostanza, a dir poco ardua. Come pure si rivelava alquanto complessa un’altra operazione di per sé elementare: quella di rimettersi il guanto.
Il libro fu trattato da quegli uomini disperati come un cimelio da venerare con la massima devozione. E nei gesti, discreti e cortesi, compiuti dagli esploratori nella semioscurità di una grotta dell’Antartide, è dato di riconoscere il valore della letteratura, e il valore di ogni libro.