C’è un personaggio, nei “Promessi sposi”, che Manzoni non tratta con il suo consueto, signorile riguardo. Anche all’indole più cattiva e deviata lo scrittore garantisce, per quanto limitato, il lenimento della sua benevola e pia ironia. A don Rodrigo (sul cui destino celeste solo Dio potrà pronunciarsi) questo lenimento, almeno in terra, non arride.
Don Abbondio ha avuto una biografia, Lucia un ritratto. Biografia e ritratto l’hanno avuto Renzo e fra Cristoforo. Persino il dottor Azzeccagarbugli è stato presentato con un’organica raffigurazione. Qualche notizia è stata data sul passato di Agnese e di Perpetua. Solo don Rodrigo rimane senza un volto e senza una storia. Calzante ed icastica – come osserva Giovanni Getto – è l’affermazione formulata da Francesco de Sanctis: “Negli epici anche il malvagio ha la sua statua. Dotato di energia, di forza, di qualità superiori, egli incute ammirazione. Manzoni ha decapitato questa statua”.
Con un intento innervato di perfida finezza Manzoni descrive il palazzotto dove abita don Rodrigo, nonché il banchetto al quale il signorotto fa da Trimalcione. Ma non descrive, fisicamente, don Rodrigo. Ne accenna le occhiate e ne sfuma i gesti. Ma il privilegio di un ritratto a tutto tondo non glielo concede.
Don Rodrigo, dunque, viene lasciato in ombra sia nei tratti della sua persona, sia negli aspetti del suo abbigliamento. E la violenza che si annida nel suo animo non è raffigurata da Manzoni come inerente alla sua persona, ma viene restituita al lettore attraverso il riflesso esterno, altrettanto eloquente, della violenza caratterizzante il palazzotto stesso. Gli elementi che compongono la sua facciata – ovvero “le rade e piccole finestre” chiuse da imposte “sconnesse e consunte dagli anni” e difese da “grosse inferriate”, nonché il portone chiuso con inchiodati sui battenti due “grand’avoltoi, con l’ali spalancate, e co’ teschi penzoloni” – creano con incisiva potenza uno scenario di aggressività in agguato. In questo ambiente c’è giù tutto don Rodrigo: c’è la sua lugubre psicologia, c’è la sua volontà di “fare il tiranno”. Così quando si presenta per la prima volta nel romanzo, non ha già più nulla da rivelarci. Fra Cristoforo, che si è recato al palazzotto per mediare a beneficio di Lucia, nell’incontrare don Rodrigo vedrà, dunque, solo un viso “da far morire in bocca a chi si sia una preghiera, non che un consiglio, non che una correzione, non che un rimprovero”. E le sue parole o saranno parole impersonali, da protocollare padrone di casa, o saranno parole di grossolana e beffarda insolenza (“sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in capo” dirà a fra Cristoforo) in cui si rispecchia – con il funzionale tramite dell’ambiente esterno – la violenza che macchia e deturpa il suo animo.