L’arte di Federigo Tozzi documenta un’evoluzione culturale rapidissima: dalle lettere di “Novale” alle pagine degli “Egoisti”, nello spazio di soli dodici anni, dal 1908 al 1920, si sviluppa un processo di sintesi che approda ad una linea originale di ricerca espressiva. L’esperienza letteraria dello scrittore senese è difficile da catalogare poiché essa viene a determinarsi in virtù di più sollecitazioni culturali, a volte in contrasto fra loro.
In un saggio a lui dedicato, il critico Giorgio Luti sottolineava che Tozzi fu inizialmente considerato “un frutto crepuscolare della provincia italiana”. In realtà lo scrittore rivelò il suo anticrepuscolarismo proprio nella conquista di una misura narrativa di forte sapore provinciale al contempo illuminata da quel respiro europeo destinato a irrompere nella repubblica delle lettere d’Italia nel dopoguerra. Il mondo in cui si muove Tozzi è quello della crisi borghese testimoniata dalla rivista “Voce”: l’urto fra pseudo-classicismo e decadentismo è riflesso nella continua ricerca di una nuova realtà morale che è il primo sintomo del disagio borghese di fronte alla crisi economico-sociale che stava per abbattersi sull’Europa.
Tuttavia l’elemento vociano della cultura tozziana non giungerà ad operare su “una zolla non lavorata”: la componente dannunziana, presente in tutto l’arco dell’attività di Tozzi, aveva già indirizzato lo scrittore verso una precisa esigenza stilistica. Se egli non si orientò verso il frammento lirico, dopo essere uscito dalla parentesi vociana, è perché su di lui agì potente l’influsso dannunziano. “In effetti – scrive Luti – la poetica tozziana presenterà sempre una componente decadentistica considerabile in senso costruttivo. Esiste una condizione di partenza su cui innestare lo sforzo stilistico, una condizione che deriva a Tozzi dalla sua stessa natura di piccolo borghese vissuto ai margini della città di provincia”. Quindi rileva: “Esiste il contrasto ereditario di figlio di un piccolo proprietario terreno che si è inurbato con lo sguardo sempre rivolto al suo tesoro di terra, alla sua ‘roba’, secondo la classica definizione verghiana”.
Quindi la sensibilizzazione verso il mondo contadino e l’interesse per il “podere” doveva condurre Tozzi al clima sperimentale del verismo: risulterà dunque di importanza nevralgica per la poetica tozziana l’interna e fertile dialettica tra dannunzianesimo e verismo. L’attenzione, vigile ed acuta, nei riguardi del problema regionale aveva investito anche D’Annunzio di “Terra vergine” e delle “Novelle della Pescara”. Tuttavia, mentre il regionalismo tozziano è “costituzionale”, quello dannunziano è solo “un filtro acquisito”, prossimo “a non operare più come elemento selettivo in quanto progressivamente otturato dalle scorie grossolane del costume borghese”. In senso del tutto nuovo, invece, opererà il verismo tozziano. Nell’articolo “Vergo e noi”, lo scrittore, evidenziando il peso delle due esperienze, richiama l’esigenza di coniugarle in una costruttiva sintesi. Così scrive: “D’Annunzio è stato per la nostra consistenza e per la nostra serietà umana soltanto una indispensabile violazione dopo la quale è stato opportuno provvedere da noi. Senza D’Annunzio nessuno di noi avrebbe la possibilità né di leggere né di scrivere. Senza D’Annunzio, Verga sarebbe stato troppo poco per la coscienza intellettuale della Nazione. Noi abbiamo avuto bisogno e dell’uno e dell’altro”.