La portò come una divisa la palandrana del professore. La portò con “immutata bonomia”. Nel tessere gli elogi di Francesco De Sanctis, saggista e critico, Giacomo Debenedetti – anch’egli un’eccellenza nell’ambito della critica letteraria – sottolineava che il “professor” era un uomo “dabbene, disarmato e ingenuo”. A vent’anni, con la sua forte miopia, camminava in lungo e in largo per lo stanzone della sua scuola cercando di fissare nella propria mente “i concetti, i nessi e le direttrici” con cui avrebbe imbastito qualche ora dopo la lezione per i coetanei che erano i suoi scolari.
La cultura di De Sanctis si specchia nella sua opera più nota ed emblematica, “Storia della letteratura italiana”. Una cultura mai disgiunta da quell’afflato di umanità che permette di riscattare l’elemento prettamente accademico da una dimensione nozionistica, conferendogli un valore più vasto e formativo. Debenedetti, al riguardo, riconosce a De Sanctis il merito di aver sottratto Manzoni (e “I Promessi Sposi”) da un contesto libresco, persuadendo anche gli scettici e i detrattori dell’altissima statura morale, oltre che letteraria, dello scrittore lombardo.
De Sanctis aveva ben compreso che “il colpo di genio” di Manzoni era stato quello di introdurre nei casi dei suoi personaggi la storia del secolo, in modo che “le avventure non prodotte, ma patite da questi innocenti personaggi, non sono l’effetto di combinazioni fantastiche, ma il risultato palpabile di cause storiche, rappresentate nel loro spirito o nella loro forma con una connessione così intima e così logica, che il racconto ci dà l’impressione di una vera e propria storia”. Per il De Sanctis, i protagonisti dei “Promessi Sposi” non sono storici, ma la storia vi è protagonista.
Tra De Sanctis e Manzoni vi era tra l’altro una forte affinità, che si esprimeva in quello che Debenedetti definiva “l’ideale di ritorno”, ovvero quell’ideale proteso a promuovere un impegno etico che scarti “un’eterna predica inesaudita” rea di non lasciar vivere l’effettiva realtà delle cose. Tanto è vero che questo ideale trova la sua esemplare personificazione in Dante Alighieri che per De Sanctis rappresentava “il primo uomo della nostra storia a scoprire il limite di una scienza astratta”. Vale a dire di quella scienza religiosa, mistica, teologica, scolastica, che il Medio Evo aveva schematizzato e inaridito. Di questa scienza, dai confini così angusti, Dante aveva fatto un atto di vita e di poesia.
Un’altra “passione” di De Sanctis fu Leopardi, cui dedicò un profondo e capillare “studio”. In quest’opera, evidenziava Debenedetti, il critico ricorda il primo incontro con il recanatese, avvenuto a Napoli, nel magnatizio palazzo Bagnara. “Quel colosso della nostra immaginazione – scriveva De Sanctis – ci sembrò, a primo sguardo, una meschinità. Non solo pareva uno come gli altri, ma al di sotto degli altri. In quella faccia emaciata tutta la vita si era concentrata nella dolcezza del suo sorriso”.
Fedele alla sua straordinaria capacità di racchiudere in una concisa e illuminante formula espressiva il nucleo del pensiero di un autore, De Sanctis seppe cogliere nella sua intima essenza il senso del dissidio – centrale in Leopardi – tra cuore e ragione. “Leopardi – osservava il critico – non crede al progresso e te lo fa desiderare, non crede alla libertà e te la fa amare. Chiama illusioni la gloria, l’amore e la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto”. Valutazione critica di impareggiabile acutezza.
E la “passione” di De Sanctis per Leopardi è testimoniata, in modo solenne, dall’ultima scena della vita del critico, ambientata nella sua modesta cameretta, dove spirò. Una cameretta spoglia e disadorna, in cui erano stati ammessi solo un’immagine del crocefisso, a capo del letto, e sulla tavola un unico libro: le opere di Leopardi.