Non era certo tenero James Joyce con chi osava prendere la penna per scrivere romanzi. Ne seppe qualcosa addirittura Virginia Woolf, gloria letteraria britannica, da lui più volte vilipesa (non mancarono le velenose repliche). Tutti si pensano scrittori, ma pochissimi in realtà lo sono, sentenziava l’autore dell’”Ulisse”. Quando, dunque, nel romanzo autobiografico “A Portrait of The Artist as a Young Man” Joyce, attraverso il suo alter ego Stephen Dedalus, dichiara che, insieme a Lord Byron, il cardinale John Henry Newman è la più grande figura letteraria britannica, l’elogio acquista una valenza ancor più pregnante.
I compagni di studi e gli amici di Stephen, di fronte a tale affermazione, rimangono stupefatti. Sanno infatti che Stephen è un ribelle, votato ad una critica caustica e impietosa, mentre Newman è una vera e propria istituzione. Due mondi opposti, si direbbe, eppure Stephen – tale è la statura morale e letteraria del cardinale – rinnega in qualche modo sé stesso pur di inchinarsi a tanta grandezza. Joyce, quindi, in un’opera cui, per sua stessa ammissione, teneva molto perché scritta più con il cuore che con la mente, tributa un solenne omaggio a Newman, riconoscendo in lui una figura di primo piano della cultura britannica e, più in generale, della storia del pensiero.
In un passo del romanzo Joyce, nell’evidenziare il talento di scrittore di Newman, definisce il suo stile “silver-veined” (screziato d’argento) per indicarne la purezza e la soavità. Uno stile che si conserva equilibrato e lucido pur nella insidiosa e complessa trattazione di verità fondamentali sul piano religioso, etico e morale. A conferma del peculiare rilievo che riveste l’elogio di Joyce a Newman, spicca la stroncatura che, poche righe prima, lo scrittore irlandese riserva ad Alfred Tennyson, anch’egli gloria letteraria del Regno Unito.
“Tennyson un poeta?” risponde Dedalus a un interlocutore. “Direi proprio di no, è solo un semplice rimatore”. Per Joyce il vero poeta è Lord Byron.