Come sono crudeli, Franz Kafka e Maurice Blanchot, con i loro personaggi. Sarebbe certo riposante per loro – osserva Jean-Paul Sarte nel saggio “Che cos’è la letteratura?” – trovarsi davanti ad una zolla di terra che non servisse a niente! Tuttavia i due scrittori escludono dai loro romanzi la natura benigna, di leopardiana memoria. Un’atmosfera soffocante accomuna, invece, le opere di entrambi. L’eroe del “Processo” si dibatte nel mezzo di una grande città, passa per le strade, entra nelle case; Tommaso, il protagonista del romanzo “Aminadab” di Blanchot, vaga per gli interminabili corridoi di un edificio. A nessuno dei due verrà concesso di vedere foreste, praterie, colline.
Sia Kafka che Blanchot abbracciano la dimensione fantastica che si manifesta nella rappresentazione di una finalità dell’azione sempre sfuggente e stravagante. Tale azione – fedele ad uno scenario che non può, per coerenza interna, non essere che fluido e vago – si sviluppa in un labirinto di corridoi, di porte e di scale che non conducono a nulla. Oltre il danno, la beffa: infatti i due scrittori disseminano la toponomastica delle loro opere di cartelli indicatori che, in realtà non indicano nulla. Si sottraggono al loro dovere di elezione, ovvero quello di fornire elementi funzionali ad un coretto orientamento. Addirittura, risultano fuorvianti. La destinazione giusta è solo un’illusione.
Su questa falsariga si inserisce il dramma dell’incomunicabilità. fondamentale sia in Kafka che in Blanchot. Tale dramma ruota attorno al concetto di messaggio. In un mondo “normale”, in cui le coordinate spazio-temporali non sono eluse né erose, il messaggio presuppone un mittente, un latore, un destinatario. Ma in un mondo “rovesciato”, il mezzo è isolato e si chiude in sé. Fioccano messaggi privi di contenuto, senza latore e senza mittente.
In un racconto di Kafka, l’imperatore manda un messaggio ad un abitante della città, ma il messaggio deve fare un tragitto così lungo che esso non arriverà mai al suo destinatario. Dal canto suo, Blanchot parla di un messaggio il cui contenuto viene progressivamente a modificarsi durante il tragitto. “Tutte queste ipotesi – scrive – rendono attendibile la conclusione che, nonostante la sua buona volontà, il messaggero, quando sarà arrivato in cima, avrà dimenticato il messaggio e sarà incapace di trasmetterlo; oppure, ammesso che ne ricordi esattamente le parole, non sarà in grado capirne il significato, poiché ciò che aveva un significato qui, deve per forza, laggiù, avere tutt’altro senso, o nessun senso”.
Può anche darsi che un messaggio ci raggiunga e sia, almeno in parte, comprensibile. Sapremo però in seguito che non era destinato a noi. Blanchot, in “Aminadab”, scopre un’altra possibilità, in bilico tra il paradossale e l’ironico. Al destinatario giunge un messaggio che è incomprensibile. Egli intraprendo allora un’inchiesta in proposito e viene a sapere, alla fine, che il mittente era lui. “Inutile dire – rileva Sartre – che simili eventualità rappresentano soltanto alcune disavventure fra le tante possibili, che fanno parte della natura del messaggio. Il mittente lo sa, e il destinatario ne è al corrente, eppure continuano, instancabilmente, l’uno a spedire lettere e l’altro a riceverle, come se il fatto più importante fosse il messaggio e non il contenuto”. Insomma, il mezzo ha assorbito il fine, come la carta assorbente l’inchiostro.