Quando la cuoca riferì a Virginia Woolf, quella mattina del 9 gennaio 1923, che Katherine Mansfield era morta, la scrittrice inglese non sapeva – annotò nel suo diario – se essere “contenta o dispiaciuta”. Un atteggiamento cinico dettato dalla fiera rivalità che ella ingaggiava con la scrittrice neozelandese. Allora perché dispiacersi? Perché la Woolf perdeva l’unica scrittrice (e scrittore), per sua stessa ammissione, degna di essere letta. “Katherine Mansfield – rilevava sempre nel suo diario – ha il coraggio di andare al fondo delle cose, senza farsi intralciare da scrupoli o da scomodi imbarazzi. Quegli scrupoli che io stessa provo nell’accostarmi, forse con troppa discrezione, alla realtà. Inoltre ella conosce l’arte di dire con semplicità, o meglio, con apparente semplicità, cose molto complicate”.
Gli “scrupoli” della Woolf affondavano le radici in un perbenismo borghese di cui non riuscì mai a disfarsi completamente, che agiva come un freno in una narrativa che pur mirava ad essere esplicita nel denunciare “i guasti” lesivi dell’integrità del tessuto sociale: ipocrisia nei rapporti interpersonali, sfacciato arrivismo, nonché uno smaccato egocentrismo che ostacolava l’aspirazione a nutrire, in una dimensione collegiale, “ideali di solidarietà e di civiltà”.
Spicca dunque come una sorta di paradosso il fatto che fu la più acerrima rivale della Mansfield a tessere le sue lodi più alte, considerando che i critici contemporanei – a parte gli obiettivi apprezzamenti – non le risparmiarono biasimi o riserve. Alle sue opere, infatti, veniva talora contestato di essere “stimolanti” ma “non veramente interessanti”, e laddove la Woolf le riconosceva il talento di una sapiente semplicità, i miopi detrattori vedevano “una frugalità senza sforzo” che impediva alla sua narrativa di elevarsi al livello di vera arte.
In realtà, l’arte della Mansfield era di un tessuto raffinato, che richiedeva intelligenza e competenza per essere adeguatamente valorizzata. La sua era una prosa a frammenti (fu paragonata, non a caso, al linguaggio pittorico degli impressionisti) che solo ad un esame superficiale poteva risultare dispersiva. E anche in questo caso fu la rivale Woolf a tributarle il doveroso plauso, inquadrando l’atto della recensione della sua produzione letteraria nella giusta prospettiva. Ella aveva infatti compreso che quella prosa “a scatti e a schizzi” riusciva alla fine di ogni storia a condensarsi, “come per magia”, in un coeso nucleo narrativo, il quale “nulla aveva da invidiare ai migliori racconti dei migliori scrittori dell’Ottocento”.