In Russia non ci andò mai, eppure Tommaso Landolfi continua a rappresentare un passaggio obbligato per comprendere in profondità la letteratura di quel Paese e il respiro epico dei suoi autori più grandi. Può sembrare un paradosso, ma del resto il pensiero stesso dello scrittore, poeta e traduttore, ha sempre avuto un effetto spiazzante, volto ad asserire verità per poi smentirle. Non amo viaggiare e poi in Russia “fa tanto freddo” soleva dire, aggiungendo che gli scrittori di quella terra tendono al pessimismo anche a causa del clima ostile: ma sono gli stessi scrittori di cui divorò le opere, fino a rivelarne – attraverso lo scavo di riletture – le sfumature più recondite.
Nel libro “I russi” Landolfi sembra parlare “obtorto collo” di Puskin, Gogol, Dostoevskij, Tolstoj, Pasternak perché rappresentanti di un mondo “estraneo” e “lontano”, per poi entrare in simbiosi con assunti e intuizioni tratti dalle loro opere, fino a diventarne divulgatore e paladino. In questa particolare dimensione di critica letteraria si specchia il disincantato atteggiamento di Landolfi quando era studente, nel 1928, all’università di Firenze: dai corsi ufficiali preferiva “tenersi a distanza” per dedicarsi con slancio all’occupazione preferita, ovvero discettare di letteratura, per notti intere, con gli amici Carlo Bo, Leone Traverso e Renato Poggioli. “Questa era la mia università” ebbe a dire anni dopo.
La sua insofferenza per l’ufficialità, sentita come una pastoia che impediva di sondare un autore nell’atto di recensirlo, si traduce in un’illuminante e spregiudicata analisi di pensieri e sentimenti. Dell’autore di “Guerra e pace” scrive in un linguaggio tra il disinvolto e il canzonatorio, e comunque in contrasto pure con i detrattori di Tolstoj, paludati anche nel formulare le loro riserve. “Vecchio Tolstoj, che è così difficile amare” chiosa Landolfi, che osserva: “Quando dice una cosa intelligente, sorprende sempre un poco. Eppure ne dice tante. Lo si direbbe grosso, sebbene genio, ma talvolta, invece, è finissimo. Sembra scaltro, e non lo è per nulla. Sempliciotto, e proprio in quel punto scopri che la sa più lunga di quasi tutti”.
Suggestiva è la sua lettura delle creature di Puskin, definite di ispirazione byroniana: romantiche ma anche classiche, non in divenire ma già arrivate, chi bene e chi male. E con tono provocatorio tende a sfatare “falsi miti”. Non è vero che all’autore di “Eugenij Onegin” piaceva solo l’autunno, che spesso ricorre nella sua opera per esprimere malinconia e languore. Anche la primavera – con i suoi palpiti e con i suoi ardori – riveste, secondo Landolfi, un ruolo prioritario.
Colpisce l’austerità, dal momento che si definiva un bohémien della penna e del pensiero, con cui di accosta alla produzione letteraria di Gogol, di cui rivendica la profonda religiosità. “Cercate di vedere in me il cristiano e l’uomo piuttosto che il letterato” scrisse una volta Gogol alla madre. E Landolfi, nel suo saggio, pone un forte accento su questa esortazione. “Siate non morte, ma vive anime. Non c’è altra salvezza fuori di quella indicata da Gesù Cristo”. Ma anche in questo caso, non resta in superficie. E nell’agitare le acque di una supina critica letteraria, Landolfi sottolinea il peso della crisi morale di uno scrittore alla disperata ricerca del senso della vita. Quel vuoto determinato dall’assenza di adeguate risposte si traduce, sul piano narrativo, nella rappresentazione di quelle figure grottesche e patetiche che popolano “Le anime morte”, un romanzo di coraggiosa denuncia sociale e tappa fondamentale della letteratura russa.