Il problema estetico ha diviso in maniera netta, stando almeno al dettato della storiografia ufficiale, Benedetto Croce e Luigi Pirandello. Ma, ci si continua a chiedere, se tra i due ci furono solo divergenze o se sono riscontrabili anche punti, significativi, di contatto. Come suggerisce in un saggio il critico Ernesto G. Caserta, nell’esaminare la diatriba con più vigile attenzione si potrebbe approdare ad un risultato che legittimerebbe una concordia essenziale, sull’estetica, nell’apparente discordia. Non è tuttora chiaro se l’anticrocianesimo di Pirandello e l’antipirandellismo di Croce si fondavano su discrepanze teoriche sostanziali o se l’antinomia aveva piuttosto un carattere eminentemente pratico. Un’antinomia che nel filosofo sarebbe stata causata dall’avversione per un particolare contenuto estetico dell’arte pirandelliana, e nello scrittore dal suo stesso atteggiamento anarchico e insofferente di fronte ad ogni logica e forma istituzionale, che gli faceva vedere nell’estetica crociana una Medusa pronta a pietrificare e a costringere in un ambito rigorosamente limitato l’arte e la vita.
Dopo un superficiale amore per la poetica veristica di Capuana, Pirandello se ne distaccò per aderire al pensiero estetico idealistico-romantico che, grazie proprio all’opera di Croce, ritornava in auge in Italia all’inizio del secolo. Da una visione dell’arte come copia, riproduzione fedele della natura secondo un criterio di rigorosa impersonalità, il drammaturgo siciliano passava a concepire l’arte alla maniera di Goethe e di Leopardi, ovvero come superamento della natura. Un analogo itinerario fu seguito da Croce che, come afferma egli stesso nel “Contributo alla critica di me stesso”, si sentiva soffocato dal peso dell’erudizione, privo, come Pirandello, del sostegno della fede e dunque bisognoso, non meno del suo quasi coetaneo, di trovare un riferimento che colmasse il vuoto lasciato dalla religione e dal positivismo: un riferimento che si tradusse nella fede riposta nel pensiero, nella fiducia – già sperimentata dai classici e dagli umanisti -nell’umana capacità di crearsi un destino proprio e libero.
Entrambi nei loro scritti giovanili – sottolinea Caserta – espressero l’esigenza della sincerità nell’arte e il rifiuto per la letteratura convenzionale che nasceva dall’accademia e dalla retorica, lontano dunque dalla vita e dalle sue genuine dinamiche. In questa ottica, i due si trovarono d’accordo nel valutare negativamente l’arte di D’Annunzio, definito dal filosofo “il lavoratore più insigne e diligente della fabbrica del vuoto”. Se questa sete di sincerità suggella, da un lato, un comune sentire, dall’altro essa rappresenta un discrimine. Mentre Croce, infatti, quale pensatore riuscì a superare la crisi psicologica e culturale del suo tempo concependo la vita come progresso costante di civiltà e libertà, Pirandello, animo d’artista, rimase “vittima sofferente” del suo logorante dissidio interiore, derivante dall’antitesi tra un mondo ideale, con le sue bellezze, e un mondo reale, con le sue brutture.
Entrambi furono sinceri con sé stessi, evidenzia Caserta. Solo che Croce teorizzò il mondo delle idee mentre Pirandello “ficcò gli occhi” nel mondo reale. Non trovando risposte né in sé stesso né negli altri, e imbattendosi in flagranti incoerenze, volle, “quasi per vendetta”, fustigare l’ipocrisia dell’uomo spogliandolo – attraverso il sapiente uso della maschera che smaschera – della sua apparenza seria e denunciando la sostanza teatrale e farsesca che ne mina e degrada la dignità.