Era l’agosto del 1937, a New York. Nell’ufficio, invaso dall’afa, dell’editore Scribner, l’aria divenne ancor più bollente quando Ernest Hemingway, dopo una serrata schermaglia verbale, mollò un ceffone a Max Eastman, critico del “New Republic”, che aveva osato stroncare “Morte nel pomeriggio”, saggio sulla corrida in Spagna, in cui lo scrittore, a detta di Eastman, non aveva biasimato, come avrebbe dovuto, “un rito immorale e pernicioso”. La tauromachia, per Hemingway, rappresentava un’esperienza in cui uomo e toro sono, al contempo, carnefice e vittima. In questo scenario il torero non è concepito come un mattatore vile o brutale: al contrario, il torero si ammanta di una sorta di “immortalità”.
Questa valutazione non era stata gradita dal critico del “New Republic”, il quale, tra l’altro, aveva lanciato velenosi strali, nel suo articolo, contro lo stile linguistico di Hemingway, che invece di essere, come di consueto, minimalista e spartano, questa volta faceva eccezione: scadeva, infatti, in verbose descrizioni di situazioni improbabili tra il patetico e l’ingenuo.
“E’ cosa nota che i tori non corrono e non galoppano in giro per i pascoli” scriveva Eastman, facendosi beffe della dimensione “bucolica” che a tratti caratterizza il saggio. Poi cita una frase di Hemingway, il quale scriveva: “I tori sono talmente coraggiosi da tenere la bocca chiusa per non far uscire il sangue, dopo essere stati colpiti a morte”. Un’idealizzazione, questa, chiosa Eastman, che non è supportata da un qualsivoglia elemento di plausibilità.
Il critico puntava il dito contro la “superficialità” con cui Hemingway aveva analizzato un fenomeno che è fondato sulla morte, “non piovuta dal cielo”, ma “inflitta con premeditazione, pianificazione e perversa competenza”. E per quale motivo? Solo per divertire un pubblico alla ricerca non di un divertimento edificante e sano, ma di effimeri brividi intrisi di morbosità.
Ricevuto lo schiaffo, il critico non reagì. Quello schiaffo, infatti, era stato per lui la conferma, inequivocabile e gratificante, che il suo articolo aveva saputo – meglio di un torero – “infilzare e trafiggere” Hemingway, inchiodandolo alle sue responsabilità, morali ed etiche, di scrittore.