Della poesia di Giuseppe Parini è stata tramandata nel tempo un’immagine astratta, catalogata sotto “un consunto cartellino” che parla genericamente di ispirazione morale, e si compiace di additarne il significato storico in un’opera di restaurazione del “contenuto” nella poesia italiana dopo i secoli della decadenza. E’ il critico letterario Giovanni Getto, in un saggio del 1947, incentrato sull’”umanesimo lirico” del Parini, a lamentare che tale ispirazione morale sia diventata una vuota formula, nonché “un fastidioso luogo comune”. Il critico intende riscattare la sua statura di poeta, innervata di una tensione etica fatta di “saporosa concretezza” che bandisce pose sterili e languide.
La sua “non è la morale del Vangelo e non è la morale di Kant”: si registra, piuttosto, un concentrato di principi da cui muove l’istanza di un tracciato ideale di precisi interessi, lo spontaneo costituirsi di un complesso di orientamenti pratici che conduce all’immagine definita di una civiltà. Più che la celebrazione di un valore etico universale, si afferma la posizione di una serie di valori nel cui incontro si attua la moralità pariniana. E’ in questo tradursi dell’ispirazione morale in una descrizione lucida e puntuale della vita che consiste il motivo lirico della poesia di Parini: in questa dimensione si sviluppa poi e trova compiutezza la sua esperienza umana.
In lui si manifesta l’attuazione di una poesia della vita morale, soprattutto attraverso le “Odi”, che si espande in una visione analitica di una precisa civiltà, corredata di usi e costumi. Al centro della visione lirica di Parini si colloca l’uomo, concepito nel segno di una mentalità rinascimentale e illuministica e dietro lo stimolo della lettura dei poeti dell’età classica e del Cinquecento. “Ogni spiraglio di trascendenza, nel suo mondo poetico – rileva Getto – vi è ostinatamente chiuso, e non già per volontaria negazione, come accadeva per alcuni scrittori del Settecento, ma per una inconsapevole indifferenza”. Poi aggiunge: “Credo che avesse ragione Carducci nel giudicare Parini il meno naturalmente cristiano tra i poeti del suo secolo”.
Del cristianesimo manca in lui “il senso dell’eterno e dell’infinito”, di Dio e della morte”, anche se cristiana è quella “ottimistica volontà” di una sana ed equilibrata ricostruzione della città terrena, come pure ha un’eco cristiana quel senso del peccato come realtà “incombente sull’uomo”. Il senso della morte lo sfiora appena: esso, più che un residuo cristiano o un presentimento romantico, è una reminiscenza classica di Orazio, di Virgilio, degli elegiaci. Il senso della morte in lui si configura come una pagana tristezza di fronte alla vita che gli sfugge e che continua senza di lui. Del resto anche il senso del peccato si spoglia di ogni individuale responsabilità cristiana di risonanza cosmica per diventare una acuminata denuncia dei mali sociali e della corruzione dei costumi.
In sostanza l’ideale di vita formulato da Parini ignora il ritmo di un’intima dinamica trascendentale e non supera l’ambito di “uno scolorito complesso di note” dove si parla di virtù solo astrattamente. Quanto tale virtù sembra conquistare sostanza, essa in realtà si esaurisce in un impreciso circolo di scialbe reminiscenze classiche.