I “Promessi sposi” sono un’opera di poesia o di oratoria? Questo interrogativo, già subito dopo la pubblicazione del capolavoro manzoniano, ha cominciato ad incalzare i critici i quali si sono schierati su posizioni diverse. Significativa la valutazione espressa da Francesco De Sanctis con la distinzione fra personaggi concreti e astratti. Questi ultimi sono le figure del “dover essere”, cioè svolgono il compito di rappresentare un’edificante esemplarità in funzione di una mirata parenetica cattolica. Questa lettura, come nota Luigi Russo, è stata accolta con favore da parte della critica cattolica, che riconosceva volontieri, nell’opera manzoniana, una robusta dose di “oratoria a fin di bene”. Nell’agone del dibattimento è poi entrato Benedetto Croce il quale ha sentenziato che “I Promessi sposi” sono un’opera di oratoria, sia pure di “bellissima oratoria”.
Segue un’altra linea di pensiero Attilio Momigliano il quale afferma che ne “I Promessi sposi” Manzoni si rivela “un limpido e luminoso poeta”, dotato di un saldo equilibrio interiore. “Riflessioni, sentimenti, fatti, personaggi, luoghi, tutto – scrive – si specchia nella sua mente come nell’acqua immobile di un lago”. Osserva Russo che la tesi secondo cui il romanzo non è che oratoria potrebbe essere salutata con favore “per ragioni non del tutto disinteressate”. Da un lato, infatti, “il lettore giacobino potrebbe polemicamente gioire di questo limite dell’opera manzoniana, e potrebbe ripetere con particolare voluttà la frase di Giovita Scalvini che nei Promessi sposi ‘non ti senti spaziare libero per entro la grande varietà del mondo morale e t’accorgi spesso di non essere sotto la gran volta del firmamento che cuopre i fedeli e l’altare”. Dall’altro, il lettore “piagnone” potrebbe compiacersi che così sia, esaltando in Manzoni l’artista che ha saputo mettere l’arte a servizio del bene e della fede. “Così i due avversari, come succede spesso agli avversari, per ragioni diversissime, si troverebbero ad andare d’accordo” rileva con arguzia Russo, il quale pone la dicotomia poesia-oratoria non solo all’interno de “I Promessi sposi” ma anche fuori del romanzo. “Questa dicotomia – afferma – s’impone anche per l’opera giovanile del poeta, per il cantore degli Inni Sacri e delle poesia civili e delle tragedie”. Fin d’allora, infatti, l’ispirazione manzoniana è complessa. Alla base di ogni lirica o tragedia, si riscontra un’ispirazione etico-storica che passa “in modo irrequieto” attraverso tre momenti: abbandono fantastico, più propriamente lirico; meditativo e storicamente illustrativo; oratorio vero e proprio. Sapegno cita, in particolare, il “Cinque Maggio”, poesia che rappresenta “nettamente” lo schema del sentire di Manzoni. Tale sentire si nutre di un’ispirazione morale che, a sua volta, si traduce in poesia rappresentativa, in meditazione e gusto storico, e infine in oratoria religiosa. Anche nel coro di Ermengarda si consuma una sublime sintesi tra le strofe di abbandono lirici e le strofe di alta meditazione etica sulla “provida sventura” che ha voluto collocare la donna tra gli oppressi, lei che discendeva dalla rea progenie degli oppressori.