Non appena poteva, il giovane Maupassant scriveva racconti e versi e li portava a Flaubert, eletto a suo mentore, perché li leggesse e li correggesse alla luce di preziosi consigli. Fu un mentore assai severo, e lungimirante, considerando che, intuitone il talento, lo costrinse a non pubblicare nulla per quasi dieci anni (fatta eccezione per alcuni articoli di critica letteraria). Doveva prima farsi le ossa e non “bruciarsi”.
Insieme ad una visione pessimistica della vita, Flaubert inoculava nel diletto discepolo la sua ferrea concezione dello stile. Gli diceva che, qualunque sia la cosa che si voglia dire, “c’è soltanto una parola per descriverla, un verbo per animarla e un aggettivo per qualificarla”. Bisognava dunque cercare, con dedizione e pazienza, quella parola, quel verbo, quell’aggettivo. Ogni approssimazione era bandita. Il rapporto tra Flaubert e Maupassant coniugava simbiosi e indipendenza. Il maestro riviveva nel discente sé stesso alle prime armi; l’aspirante scrittore era impegnato ad assorbire gli illuminanti insegnamenti del mentore in vista dell’ingresso, a pieno titolo, nel mondo delle lettere. Al contempo si veniva configurando una netta differenza tra i due sul versante della composizione. Prima di arrivare alla versione definitiva, Flaubert era capace di stracciare un numero imprecisato di fogli, mentre al testo ufficiale Maupassant giungeva con disarmante facilità: le brutte copie dei suoi manoscritti rivelano poche e leggere correzioni. Inoltre, mentre Flaubert si documentava minuziosamente sui luoghi e sui personaggi dei suoi libri raccogliendo impressioni dal vivo, Maupassant attingeva dai ricordi che aveva riguardo ad un fatto avvenuto nel lontano o recente passato: questo richiamo gli era sufficiente per accingersi a scrivere.
Quando Maupassant si affermò nella repubblica delle lettere, fu subito catalogato come naturalista: definizione, questa, a lui sgradita. In una missiva a Paul Alexis, uno dei collaboratori delle “Soirées de Médan”, il ventisettenne Maupassant scriveva: “Non credo al naturalismo e al realismo più di quanto non creda al romanticismo. Al mio spirito queste parole non vogliono assolutamente dire nulla. Esse servono soltanto a dispute di opposti temperamenti. Siamo originali, qualunque sia il carattere del nostro ingegno, ma non confondiamo l’originalità con la bizzarria”. Maupassant, nella lettera, sottolineava poi che non è facile stabilire le regole di un’arte, tanto più che ciascun temperamento di scrittore ha bisogno di regole differenti. “Credo – osservava – che per produrre non si debba tanto ragionare. Ma si deve guardare molto e pensare a quello ce si è visto. Vedere è tutto qui, e vedere giusto. Per vedere giusto, intendo coi propri occhi e non con quelli dei maestri. L’originalità di un artista si riconosce dapprima nelle piccole cose e non nelle grandi. Sono stati fatti capolavori – evidenziava – con particolari insignificanti, su oggetti volgari. Bisogna trovare alle cose un significato che non sia ancora stato scoperto, e cercare di esprimerlo in maniera personale”.
In un passaggio della lettera particolarmente seducente, Maupassant afferma che chi riuscirà a stupirlo parlando di un sasso, di un tronco d’albero, di un topo, di una vecchia seggiola, sarà certamente sulla strada dell’arte e sarà adatto, più tardi, a grandi soggetti. Segue quindi una solenne, incisiva e, per certi versi, spiazzante raccomandazione: “Non imitate, non ricordate nulla di quanto avete letto. E dico una cosa che può risultare mostruosa ma che credo verissima. Ovvero, per diventare personalissimo, non ammirate nessuno”.