E’ l’ingratitudine il vero protagonista di “Papà Goriot”, il romanzo scritto da Balzac nel 1834. Goriot è dominato dall’amore per le proprie figlie, le quali, invece, avare e frivole, nonché insensibili ad ogni forma di sentimento, prosciugano gradualmente il padre di ogni avere, per poi abbandonalo. Il vecchio Goriot è ridotto a vivere in una squallida pensione. Morirà solo. Egli incarna la figura-tipo della narrativa balzachiana, ovvero l’uomo che sperimenta il fuoco della passione fino alle estreme conseguenze. In un mondo dominato dall’interesse personale e dal feroce egoismo, Goriot finisce per configurarsi come “un eroe ridicolo”, che brilla sul piano umano ed etico, ma che viene irriso dalle spietate logiche consumistiche del suo tempo.
Il dramma di Goriot rappresenta la trasposizione borghese del re Lear shakespeariano, anch’egli soggiogato dall’amore, non corrisposto, per le proprie figlie (tranne che da una, l’onesta Cordelia). E nel dramma del vecchio al contempo sfruttato e ripudiato, si specchia “la fogna morale” di una Parigi crudele, asservita al denaro, e dipinta da Balzac con spietato realismo.
La pensione dove tristemente si trascina l’esistenza di Goriot assume il profilo di una microsocietà in cui si incontrano personaggi con storie anch’esse condizionate e governate dalla dura legge del denaro: Rastignac il giovane studente di provincia venuto nella capitale, che nutre ambizioni di affermazione sociale; Vautrin, l’ex galeotto, che ha capito “perfettamente” come funziona il mondo e si impegna a valorizzare ogni buona occasione che esso gli offre; madame Vauqueur, che valuta i suoi pensionanti solo dai soldi che hanno in tasca.
Il dramma – nel segno di un romanzo dal respiro corale – non è dunque confinato alla singola persona. Il dramma è sociale. E’ data una sola alternativa, “o una stupida obbedienza o la rivolta”, come insegna il consumato Vautrin all’ancora inesperto Rastignac. Ma ribellarsi significa rinunciare ad ogni sentimento puro e schietto, per dedicarsi alla “pratica della sopraffazione”, muovendosi con la dovuta abilità tra le maglie del codice penale. Di conseguenza, in una società così strutturata, chi antepone – come fa Goriot – le ragioni del cuore alle ragioni del profitto materiale, è destinato a soccombere.
Quello di Balzac è un realismo che, per paradosso, si carica di una cifra simbolica, perché non si limita a descrivere minuziosamente una situazione, ma la estremizza al punto da ricavarne un messaggio che trascende l’elemento fattuale per proporsi, sul piano morale, come uno strumento di potente denuncia sociale.
“Papà Goriot” si qualifica anche come romanzo di formazione, incentrato sulla figura del giovane Rastignac. Inizialmente ingenuo, imparerà presto a “stare al mondo” e a “rimanere a galla” nella tempesta della vita. Da principio il suo obiettivo era quello di conformarsi alla legge. Successivamente, pur di soddisfare la brama di arrampicatore sociale, con la legge verrà a compromessi, per poi tentare di aggirarla o, meglio, di “padroneggiarla”. Ma nel suo animo, divorato dall’ambizione, alberga comunque un sentimento di sincera bontà. Sarà lui, solo lui, ad accompagnare papà Goriot nell’ultimo viaggio. “Guardò la tomba e vi seppellì la sua ultima lacrima di ragazzo – scrive Balzac -. Una lacrima strappata dalle sacre emozioni di un cuore puro, una di quelle lacrime che, dalla terra su cui cadono, risalgono fino al cielo”. Il processo di formazione del giovane può dirsi ora completato.
Dopo aver compiuto questo atto di umana compassione, Rastignac non pone indugio alcuno e, fedele alla sua indole, subito fissa gli occhi, “quasi con avidità”, in un punto tra la colonna della place Vendome e la cupola degli Invalides, là dove viveva “il bel mondo in cui era voluto penetrare”. Su quell’alveare ronzante lancia uno sguardo che già sembrava volerne succhiare il miele. E pronuncia, indirizzandole a Parigi, queste parole solenni: “A noi due adesso!”.