Già all’inizio della sua carriera letteraria Samuel Beckett aveva le idee chiare. Nel suo secondo libro, “Murphy” (1938) – scritto dopo il romanzo rimasto inedito fino al 1992, “Dream of Fair to Middling Women” – il protagonista racchiude in sé, facendosene paradigmatica espressione, i tratti fondamentali della concezione esistenziale dello scrittore, poeta e drammaturgo irlandese, premio Nobel nel 1969. Murphy, descritto come “un solipsista depresso”, lavora come infermiere in una clinica per malati di mente. Ben presto scoprirà che la pazzia dei pazienti è un’attraente alternativa alla vita cosciente, che viene invece apprezzata e gelosamente custodita dalla borghesia benpensante.
Per raggiungere il suo sogno di libertà, Murphy si fingerà pazzo, ma questa via d’uscita risulterà vana. Infatti non riuscirà mai a stabilire un rapporto cordiale con il mondo a causa di un’incomunicabilità che si configura come un ostacolo insormontabile. E nel momento in cui il protagonista cerca di dare un senso stabile alla realtà, scoprirà quanto siano lontani gli altri. Ogni tentativo di creare un’alleanza con il prossimo sarà votato all’insuccesso: prova ne sia che alla sua morte, tra l’indifferenza generale, le ceneri verranno sparse tra le sporcizie di un bar.
Sono dunque già ben sviluppati i principali ingredienti che poi formeranno il menù ideologico di Beckett. Incomunicabilità, ricerca di senso e di una precisa identità: il tutto inquadrato in un contesto di elaborazione letteraria che la critica ha poi definito “teatro dell’assurdo”, caratterizzato dal rifiuto di una costruzione drammaturgica razionale e dall’abbandono di un linguaggio logico-consequenziale, a beneficio di una disorganica successione di eventi.
Questo “teatro dell’assurdo” – espressione di un disagio cronico nei riguardi di un’esistenza velleitariamente concepita come ordinata e senza traumi -poggia, sul piano della resa letteraria, su dialoghi senza senso, ripetitivi e serrati, capaci anche di suscitare un sorriso pur in un contesto tragico. E’ in questa temperi – in cui operano autori del calibro di Eugène Ionesco, Harold Pinter e Boris Vian – che trova terreno fertile il capolavoro di Beckett, “Aspettando Godot” (1952), dramma, scritto primo in francese e poi in inglese, che ha rivoluzionato il teatro contemporaneo, mettendo alla berlina radicate certezze e polverosi convincimenti. Nell’opera è forgiato un miscuglio di citazioni teologiche e turpiloquio, come pure viene realizzata una spuria commistione di generi, demolendo così l’aurea architrave della struttura narrativa composta di azione, trama e significato, e inquinando la purezza di un teatro classicamente inteso.
Sono più i silenzi che le parole a dare sostanza al dramma, i cui protagonisti, Vladimir ed Estragon, simboleggiano l’umanità che agogna a ghermire il senso da porre a fondamento della propria vita. Quel senso che i due vagabondi pensano riposi nella figura del “Signor Godot”, di cui si mettono in paziente attesa, lungo una desolata strada di campagna. Ma Godot non arriverà mai. Si limita a mandare da Vladimir ed Estragon un ragazzo che dirà loro che Godot “oggi non verrà, ma verrà domani”. In questa vana attesa si specchia il concetto dell’insufficienza dell’uomo quando si misura con la sfida dell’esistenza. Se non c’è un sussulto verso qualcosa che sta al di sopra del livello terrestre, se non c’è lo sguardo rivolto verso il cielo, ogni tentativo di dominare, con le sole forze umane, il magma della quotidianità, sarà sempre “un buco nell’acqua”: quel buco, prima o poi, inghiottirà – per suggellarlo nell’oblio – ogni proposito di affermazione e di riscatto.