Nedda, protagonista dell’omonima novella di Giovanni Verga, è il primo personaggio della serie dei “vinti” che caratterizzano la narrativa dello scrittore siciliano. In questo tipo di figura risiede un sentimento onesto, schietto, e impassibile della propria conclamata “inferiorità”. Nel vinto c’è un sentimento di rassegnazione alle crudeltà e alle storture della vita. C’è come il riconoscimento della fatalità della sorte, quando si è nati poverissimi. Ma in tale riconoscimento non c’è abiezione, ma una sorta di inconsapevole trasfigurazione eroica. E’ una filosofia dimessa e sconsolata, ma che non fa del vinto un debole: al contrario, il vinto viene a simboleggiare la forza, una forza primitiva, non fiaccata da orpelli, anzi forgiata al fuoco delle avversità e delle ingiustizie. Tale filosofia è nobilitata da un senso di fiera dignità che sembra contrarsi con un moto di pietà, pur senza emettere un lamento. E’ una contrazione spirituale, senza lacrime.
Questa narrativa trova appunto in Nedda un’eloquente esemplificazione. Ella è una raccoglitrice di olive. Sua madre, molto malata, è da lei assistita. Presto muore. Poi conosce Janu, e fiorisce l’idillio. Durerà, tuttavia, poco, poiché il ragazzo, reso inebetito dalla malaria, cade da un albero. Un tragico incidente. L’idillio aveva portato una bambina che morirà, per stenti, tra le braccia della madre, additata dalle comari e dalle coetanee come peccatrice: in quanto tale, è giudicata una persona da evitare.
Nedda, e sta qui la sua forza, conserva una fiducia di fondo, nonostante lo scenario non possa essere più ostile. Si legge in un passo del romanzo: “La domenica allorché le fanciulle, vestite dei loro begli abiti da festa, si tiravano in là sul banco in chiesa, ridevano di Nedda, e i giovanotti, all’uscire di chiesa le dicevano facezie grossolane, ella si stringeva nella sua mantellina tutta lacera e affrettava il passo, chinando gli occhi, senza che un pensiero amaro venisse a turbare la serenità della sua preghiera, ovvero diceva a sé stessa, a mo’ di rimprovero che si fosse meritato. ‘Son povera così’, oppure, guardando le sue due buone braccia, ‘Benedetto il Signore che me le ha date!’, e tirava via sorridendo”.
Relegata ai margini perché “peccatrice”, in chiesa non trovava più posto “al solito banco”. Allora doveva stare per tutto il tempo “ginocchioni”. Se le donne, poi, la vedevano piangere, “pensavano a chissà che peccatacci” e le volgevano le spalle “inorridite”. E quelli che le davano da lavorare, ne approfittavano “per scemarle il prezzo della sua giornata”.
Quando Nedda, dopo aver raccolto le olive (lavoro assai faticoso e logorante) si presenta alla castalda per la sua razione di cibo, ella è già serenamente rassegnata a subire un’ingiustizia, ma che lei vive come “giustizia” in quanto conseguenza naturale del fatto che è povera. “Le vostre scodelle, ragazze!”, grida la castalda scoperchiando la pentola “con aria trionfale”. Tutte le ragazze, scrive Verga, “si affollarono al focolare ove la castalda distribuiva con sapiente parsimonia le mestolate di fave”. Nedda aspettava “ultima”, con la sua scodella sotto il braccio. Quando la porse alla castalda, “ella ci versò quello che rimaneva di fave nella pentola, e non era molto”.
“Perché vieni sempre l’ultima? – chiede la castalda a Nedda -. Non sai che gli ultimi hanno quel che avanza?”. La povera ragazza “chinò gli occhi sulla broda nera che fumava nella sua scodella, come se meritasse il rimprovero, e andò pian pianino, perché il contenuto non si versasse”. L’umiltà penitente della protagonista si rivela anche – intuizione geniale di Verga – in quella cura riguardosa e trepidante con cui ella trasporta la sua minestra. E’ la cura che deriva da un rispetto reverenziale – sublime sintesi di umiltà e gratitudine – per quella “grazia di Dio” che le viene concessa.