Mentre Verga emancipava la vivacità parlata della sintassi e rivendicava la dignità della parola nuda, Carducci restaurava l’aristocrazia della forma, indebolita dai romantici, miranti a ledere l’aulicità dei costrutti pur restando aulici nel gusto e nel sentire. Al contempo Carducci rinnovava l’onore dell’alta cultura e suscitava una meditata consapevolezza delle tradizioni italiche, cementando l’unità politica (conquista recente) con i ricordi della romanità e della civiltà comunale.
Intanto la più umile schiera dei veristi, con a capo Verga, scopriva un’Italia diversa da quella carducciana: un’Italia dialettale, pieno di fango e di loto, ma che non era in contrasto con l’Italia vagheggiata dal poeta di Pietrasanta. Essa, anzi, nel segno di una costruttiva integrazione, poteva dire parole più precise e appropriate, e dare concretezza a quell’altra Italia, racchiusa, spesso in modo improduttivo, in una dimensione mitica. L’Italia di Verga scopriva una sintassi nuova, sbrigliata da paludamenti, che valeva a correggere l’astrattezza della togata narrativa letteraria, pur senza trasgredire le leggi della tradizione.
La lingua verista chiamava pane il pane, e vino il vino, realizzando quel sogno dei romantici che avevano tentato di conferire un tono più borghese alla lingua cortigiana. Di conseguenza – rileva il critico Luigi Russo – la lingua di Verga si configurava come “maestra di semplicità morale”. La rivoluzione romantica, inaugurata da Manzoni, veniva dunque a concludersi nella schiera dei provinciali che, scrive il critico, “parevano dimentichi di tutti i nostri più celebrati blasoni di nobiltà letteraria, ma che a quella nobiltà pur finivano col portare tributo di nuove ricchezze e di più fresche primizie”.
E Verga, che doveva torreggiare su quella schiera, riprendeva, “inavvertito e tacito”, la grande eredità di Manzoni, in un momento in cui sembrava che l’apollinea classicità di Carducci e il prezioso estetismo di D’Annunzio volessero inficiare il pregio del patrimonio cattolico-borghese dello scrittore lombardo.
Russo rileva che il movimento naturalistico europeo, in particolare quello francese, era dominato da una concezione deterministica della realtà. L’individuo, secondo questa prospettiva, era alla mercé di forze cieche e ignare. Anche in Verga si riscontra un’ombra di tale determinismo, ma è un determinismo “allargato”. Vale a dire, non è la gretta materialità dell’ambiente e della razza che opprime i protagonisti dei racconti verghiani, ma “una più grandiosa e oscura divinità che può chiamarsi destino”. Questa divinità pesa su tutto, sugli uomini e anche sulle cose. Essa rappresenta “l’eterno limite” delle aspirazioni umane, le quali non sono più conculcate in un troppo soddisfatto “non possumus”, perché sono celebrate pur nella loro impotenza, e accompagnate da una melodia triste che riesce a formare un canto epico, eroico e sconsolato. Tale canto sublima l’impari ma tenace lotta dell’umanità di fronte al destino, “oscuro nume regolatore” dei suoi sensi e delle sue vicende.