Gli amici più intimi l’avevano esortata ad essere più diplomatica nel criticare la società inglese, rea di relegare le donne ad un ruolo subalterno e nel fustigare le mode letterarie del tempo definite “insulse e vacue”. Il rischio, infatti, era che venisse reciso sul nascere il filo di una carriera di scrittrice che si annunciava promettente. Ma Virginia Woolf, pur consapevole della fondatezza di queste argomentazioni, proseguì per la sua strada. E dopo un lungo andirivieni di revisioni (scrisse oltre mille fogli) vide finalmente la luce il suo primo romanzo, The Voyage out: era il 1915. La prima bozza era stata redatta nel 1910, ma la scrittrice, non solo per meticolosità ma anche per insicurezza, mise mano più volte all’intreccio che sarebbe stato completato cinque anni dopo. Una gestazione travagliata, dunque, ma che già rivelava la grandezza della scrittrice londinese.
La protagonista, Rachel Vinrace, aveva quel carattere sanguigno, volitivo e, nel contempo, tormentato e vulnerabile, che sarà poi il tratto distintivo delle figure femminili cui avrebbe arriso fama imperitura: da miss Dalloway a miss Ramsay.
Il romanzo fu accolto con perplessità. Lo scrittore Edward Morgan Forster lo definì “strano” perché parlava di un Sud America che non si sarebbe potuto trovare su una mappa e di una barca che nessuno sarebbe stato in grado di veder solcare le acque del mare. Ma al di là di quelle che potevano essere le imperfezioni legate all’immaturità di un’artista all’esordio, ai più sfuggì lo spessore del tormento interiore che scava nell’animo di Rachel, sospinta dal desiderio di valicare gli opprimenti confini della realtà londinese per tentare un’evasione e un riscatto spirituale in un continente tanto decantato quanto ignoto.
La protagonista è insofferente delle convenzioni che penalizzano la donna nell’ambito delle varie realtà sociali. Il suo “stillicidio di pensiero” è seguito dalla Woolf con un linguaggio mobile e dinamico, che aderisce come colla al fluire raziocinante di Rachel. Già dunque si profilano i primi dettami di quello stream of consciousness che – grazie anche al decisivo apporto di James Joyce ed Henry James – avrebbe gettato i presupposti per la creazione del romanzo moderno.
Nel 1923 la Woolf scrisse “The Common Reader”, un manifesto letterario cui tenne fede lungo tutto il cammino della sua produzione letteraria. Scagliandosi contro i cosiddetti autori “materialisti” (Arnold Bennet, Herbert George Welles, John Glasworthy) la scrittrice rivendicò il valore dell’anima e delle passioni, delle idee e dei pensieri, anche quelli più reconditi. In questo inedito scenario anche la punteggiatura, come si riscontra pure in The Voyage out, viene a costituire una novità: essa, infatti, tende a non seguire le regole e le consuetudini per meglio dare voce al respiro e alle intonazioni del personaggio. Ecco allora che la punteggiatura (l’imprevedibile collocazione della virgola o la sua assenza giocano in tale sentire narrativo un ruolo chiave), concepita in precedenza come un “ferro del mestiere” tradizionale e scontato, assume nella Woolf la stessa funzione che il monologo interiore riveste nel romanzo: seguire passo passo il flusso di coscienza, disdegnando, per amore di verità, schemi prestabiliti e stantii.