Qual è il dovere della scienza? E’ questo l’interrogativo che domina l’opera teatrale “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht, di cui esistono tre redazioni (1937-1939; 1947; 1957). Da tale interrogativo se ne sviluppano altri, strettamente interconnessi, riguardanti il ruolo dello scienziato nella società e l’uso e il fine della ricerca scientifica, nonché delle eventuali scoperte. Nel dramma brechtiano Galileo è presentato come lo scienziato che ha ceduto all’imposizione e ai ricatti del “sistema” (incarnato anzitutto dall’Inquisizione), ma che, salvandosi dal rogo con l’abiura, ha potuto ancora “servire la scienza”. Nella sua coatta solitudine, Galileo scriverà trattati sulle dimostrazioni matematiche e sulle scienze che rappresentano un contributo fondamentale nella storia della cultura scientifica. Ma sorge, a tal proposito, un altro legittimo interrogativo: è sufficiente farsi “servo della scienza”, dunque promotore del progresso, se viene lesa la dignità della persona e vituperato il suo credo?
In un lungo monologo, che conduce alla fine del dramma, Galileo fa un rigoroso esame di coscienza, nella lucida consapevolezza di non appartenere più al mondo della scienza. La riflessione dello scienziato si configura come un monito diretto a sradicare superstizioni e falsi principi. “Non credo – afferma – che la pratica della scienza possa andar disgiunta dal coraggio. Essa tratta il sapere, che è un prodotto del dubbio, e col procacciare sapere a tutti su ogni cosa, tende a destare il dubbio in tutti”. Il problema è che la gran parte della popolazione è tenuta dai suoi “proprietari di terre” in una “nebbia madreperlacea” di antiche sentenze che occulta le malefatte di costoro. “Antica come la roccia è la condizione dei più, e dall’alto dei pulpiti e delle cattedre si soleva dipingerla come non meno infrangibile” dichiara Galileo, che poi rileva: “Ma la nostra nuova arte del pubblico appassionò il gran pubblico, che corse a strapparci di mano il telescopio per puntarlo sui suoi aguzzini. Codesti uomini egoisti e prepotenti, avidi predatori a proprio vantaggio dei frutti della scienza, si avvidero subito che un freddo occhio scientifico si era posato su una miseria millenaria ma artificiale”.
E’ una miseria che poteva essere eliminata con “l’eliminare loro stessi”. E allora sommersero “noi stessi sotto un profluvio di minacce e corruzioni, tale da travolgere gli spiriti deboli”. Di fronte a questo scenario, Galileo si domanda se sia possibile “respingere la massa e conservarsi uomini di scienza”. Mesta e lugubre è la risposta dello scienziato: “I moti dei corpi celesti ci sono divenuti più chiari, ma i moti dei potenti restano pur sempre imperscrutabili ai popoli”. E se il dubbio ha vinto la battaglia per la misurabilità dei cieli, “la battaglia della massaia romana per la sua bottiglia di latte sarà sempre perduta dalla credulità”.
Galileo è categorico nell’affermare che se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare “sapere per sapere”, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà che “fonte di nuovi triboli” per l’uomo. E quando, con l’andare del tempo, sarà stato scoperto “tutto lo scopribile”, il progresso non sarà che “un graduale allontanamento dall’umanità”. Tra i sedicenti uomini di scienza e l’umanità si scaverà quindi “un abisso così grande che ad ogni eureka risponderà un grido di dolore universale”.