Già dalla copertina, completamente bianca, nell’edizione originale “Il giovane Holden” si preannunciava provocatorio. La scelta di J. D. Salinger stava a significare che ciò che conta non è la forma, ma la sostanza, ovvero le parole scritte sulla pagina. Sottotitoli, rigoni, catenacci non sono che fronzoli, e in quanto tali vanno eliminati. Ma anche quando poi si passa alla sostanza, ci si trova di fronte ad una provocazione. Nel 1951, anno in cui uscì, il libro fece subito parlare di sé, e in breve tempo, a dispetto degli strali lanciati da una parte della critica, riscosse una grande popolarità, per poi imporsi come un classico della letteratura americana. Salinger ci aveva visto giusto. I lettori avevano bisogno di un romanzo che deviasse da un solco letterario lungo il quale scorrevano concetti e pensieri triti e supinamente condivisi.
Occorreva qualcosa di nuovo, capace di aprire spazi che puntassero a nuovi orizzonti. L’autore realizzò allora un romanzo di formazione che vede appunto il giovane Holden fare il suo ingresso nel mondo ed acquisire con esso una crescente familiarità, la quale, in verità, non sarà mai intima. Tra il protagonista e il mondo si frapporrà sempre un diaframma perché Holden, con il suo atteggiamento scanzonato, a volte irriverente, tratterà il suo “interlocutore” con quel distacco e con quel disincanto che non potranno mai favorire un rapporto di incondizionata fiducia.
Il romanzo di formazione, di per sé, non rappresentava una scelta originale. Basti pensare ad illustri precedenti del genere, da Balzac a Flaubert, da Goethe a Foscolo. In questi casi, al di là delle differenti contingenze, sia storiche che ideologiche, è dato comunque di constatare un elemento comune: il protagonista, anche se ribelle, conserva sempre nei riguardi del mondo un atteggiamento rispettoso, anche timoroso, quasi di soggezione. Holden, invece, non condizionato da infrastrutture, è portato a superare naturaliter, sul piano dei rapporti sociali, barriere formali e cerimoniose pastoie.
Ed è proprio grazie a questa sorta di sfrontatezza, vicina al cinismo, che Holden riesce a dare del mondo un’interpretazione lucida: il sentimento c’è, ma è comunque contenuto. Così la dimensione emotiva non va ad offuscare una schietta valutazione delle complesse dinamiche e dei paradossali meccanismi che regolano il ritmo dell’universo.
Il libro, tuttavia, coltiva momenti di tenera commozione. Con la sorellina Phoebe, Holden condivide pensieri intimi e in lei riconosce un sostegno nei momenti di difficoltà; di uno dei fratelli, Allie, morto di leucemia, egli conserva il guantone da baseball sul quale aveva scritto alcune poesie da leggere “durante i momenti morti della partita”. Un riferimento cui appellarsi “nelle ore tristi” Holden lo vede anche nel professore Antolini, il quale lo mette in guardia dal cristallizzarsi in certezze assolute. Tanto che il professore dichiara di avere in odio la parola “addio”, troppo definitiva e categorica per i suoi gusti. “Nella vita – dichiara – non si sa mai”.
Al termine del cammino di maturazione, Holden capirà che nel mondo nessuno, anche il più detestabile, merita di essere escluso. Da questa consapevolezza deriva la frase, o meglio la raccomandazione, che chiude il libro e che suggella il passaggio del protagonista all’età adulta: “Se un giorno vorrete raccontare una storia, è meglio che non lo facciate: perché finirete per sentire la mancanza di tutti”.