Perfino i grattacieli non raggiungono il cielo. Nemmeno l’Everest ci arriva. E’ un’interpretazione acuta e stimolante quella offerta da Erri De Luca del testo riguardante la torre di Babele, nel libro, a firma dello scrittore e di Marc-Alain Ouaknin, “Cucire un’amicizia. Conversazioni bibliche”. L’argomentazione rientra nel dialogo intessuto da De Luca con il rabbino, filosofo, professore all’Università di Bar-Ilan, a Tel Aviv. L’incontro è stato ospitato da Ruben Honigmann, direttore editoriale di “Akadem”. Il dialogo – che risulta essere un fertile confronto di pensieri e di idee – verte su tre testi biblici: la torre di Babele, la raccolta della manna nel deserto e un passo del libro di Qohelet, o Ecclesiaste.
Un cambio di rotta, suggerisce De Luca. “Nei dipinti che raffigurano Babele – afferma – vediamo sempre una torre in costruzione, non ancora finita. La città è la torre. Ma quando la divinità scende gli uomini stanno continuando a edificare la città. E la torr che fine ha fatto? Stanno continuando a costruire la città e non la torre perché la torre è già stata terminata. Il fallimento quindi – sottolinea – non sta nel fatto che la torre non ha raggiunto il cielo, poiché nessuna torre può arrivare al cielo”.
Allora in che cosa consiste questo fallimento? Nonostante gli uomini insistano nel continuare a costruire la città, la divinità interviene perché l’umanità è diventata una sorta di “formicaio”, in cui tutte le attività sono mosse da un solo obiettivo e si riducono ad una sola operazione. Si tratta perciò di un intervento che provoca la “dispersione”, ovvero un’azione feconda perché permette all’umanità di “mettere le radici nei luoghi più inospitali del mondo come deserti e foreste, montagne e regioni polari”. Le dispersioni sono dunque feconde, ma sono anche tragiche, per chi è costretto a lasciare il proprio luogo di origine. “Lo sradicamento è doloroso – evidenzia lo scrittore – e tutti i movimenti di massa degli uomini che avvengono oggi sulla terra non sono altro che una replica della finalità della dispersione”.
Ouaknin, dal canto suo, rileva che il problema di Babele risieda in “una sola lingua”, ovvero c’è il rischio che si radichi “un’indifferenza” che non renda ragione dei doverosi distinguo, livellati dal processo di globalizzazione. Si rende dunque necessaria “un’opera d traduzione” che restituisca le differenze, facendo in modo che la lingua, invece di essere una sola, diventi “plurale”.
Perché Dio fa cadere manna più del necessario? Il motivo è chiaro, spiega De Luca: perché nessuno deve subire la mortificazione di andare a raccogliere l’ultima porzione, “quella calpestata o scartata dagli altri”. Inoltre nessuno deve entrare in competizione con gli altri per raggiungere la manna per primo. L’obiettivo, dunque, è “l’unità”, la concordia tra coloro che sono nel bisogno, evitando liti e contese.
Secondo il rabbino, la manna deve trasformarsi da “festa esclusivamente allegra” in una “festa di condivisione sociale”, capace di cancellare, o almeno di affievolire, sentimenti di sdegno e di ira all’interno di una comunità, nel segno di un’equa e lungimirante distribuzione delle risorse, cosicché ognuno abbia “il necessario” per vivere.
Ricorda Ruben Honigmann che Qohelet è un testo complesso, oscuro. Il capitolo 11 comincia con l’ordine di gettare il pane “sulla superficie dell’acqua”. Quale interpretazione dare di questa ingiunzione? De Luca, in merito, fa riferimento al concetto di torto, che rimane “irreparabile”. Non è possibile curarlo: una volta commesso, non c’è più niente da fare. Lo scrittore richiama quindi un aneddoto riguardante un anziano talmudista invitato alla grande sinagoga di Varsavia. E’ poverissimo e vestito male. Sale su una carrozza di terza classe dove ci sono altri ebrei che vanno nella stessa direzione. Costoro non lo conoscono. Forse da troppo tempo non si lava. Insomma, lo cacciano. Giunto alla sinagoga, tiene il suo discorso, e coloro che lo avevano cacciato e offeso, alla fine vanno a chiedergli scusa.
L’anziano risponde che vorrebbe perdonarli, ma devono chiedere scusa a quello del treno. E’ uno scherzo? No, non lo è. E’ davvero possibile chiedere scusa a quello del treno. Ma come? “Ogni volta che ti trovi nella stessa situazione e non ripeti l’offesa, allora tu hai chiesto scusa a quello del treno” afferma De Luca. L’uomo del treno, come il pane gettato sulla superficie dell’acqua, ha moltiplicato la possibilità di essere perdonato evitando di ripetere il torto. “Quando commetto un torto – dichiara lo scrittore – memore della storia del talmudista, cerco almeno di fare in modo che non sia lo stesso torto già commesso un’altra volta. ‘Getta il tuo pane sulla superficie dell’acqua’ per me significa questo”.
L’interpretazione del rabbino si focalizza sul valore della condivisione sotteso al gesto di gettare il pane. Una condivisione che si specchia nell’incontro dell’uno con l’altro e che ha come fine quello di evitare che la persona “si fossilizzi e si incrosti”. Occorre, al contrario, promuovere la “fluidità” e la “modellabilità”, che consentono il rafforzamento di uno agile spirito di solidarietà che non sarebbe altrettanto efficace se rimanesse soffocato in un immobilismo cui non arride il potente respiro dell’animo umano. Un respiro votato al rapporto, cordiale e costruttivo, con il prossimo, anzitutto quello segnato dal bisogno e dalla sofferenza.