Un lutto prima del lutto. Per Georges Simenon è come se la madre fosse già morta prima di spirare. La distanza fra la potenza e l’atto è brevissima. Una distanza che lo scrittore belga cerca di colmare tornando a Liegi, dopo lunghi anni di assenza, per assistere la mamma novantenne negli ultimi giorni di vita. La coscienza lo rimorde. Preso dalla sua smania di scrivere, ostaggio della sua penna (una penna magistrale), Simenon – pur fiero del suo lavoro – non si sente a posto con la coscienza. In fondo al cuore, prova un senso di colpa. Avrebbe potuto, avrebbe dovuto dedicare più attenzione e cura a chi lo ha generato. Ma non l’ha fatto. C’è modo di rimediare, almeno in parte, a questo sbaglio?
E’ una sorta di confessione “Lettera a mia madre”, un breve scritto toccante e illuminante offerto alla riflessione del lettore tramite uno stile – fiore all’occhiello della narrativa di Simenon – asciutto, essenziale, talora crudo.
Nella stanza dell’ospedale gli occhi, slavati, della madre lo fissano: “Perché sei venuto, Georges?”. Questa domanda lo inchioda e denuncia le responsabilità cui, in qualità di figlio, è venuto meno. Un interrogativo che innesca un duello tra i due. Per quasi cinquant’anni si sono visti pochissimo. Eppure a legarli vi è sempre stato un filo sottilissimo, quasi invisibile, ma molto resistente. La mamma è una donna minuta, un fascio di nervi. Ha sempre vissuto, in modo discreto, dello “stretto necessario”, nel suo angolo di Belgio. Il figlio, invece, celebrato scrittore, ha viaggiato per il mondo. Si tratta di una distanza non solo geografica, ma di concezione della vita. Ad accomunarli vi è la scarsa propensione a rivelare i propri sentimenti: per due persone che vivono in due diverse dimensioni, questa attitudine non può che contribuire ad allargare e a sancire il doloroso iato che li divide.
Accanto al letto di morte di sua madre, Simenon afferma che solo ora comincia veramente a capirla, e ad apprezzarla in tutto il suo valore, perché nel momento che precede la dipartita gli si manifestano, con abbagliante chiarezza, gli insegnamenti che lei, seppure in modo frammentario e discontinuo, gli ha impartito. Dalla mamma lo scrittore ha imparato ad osservare la gente, cercando di comprendere il bene e il male che risiede in ciascuno. Dalle opere da lui vergate, in cui domina l’analisi lucida e spietata della psicologia dei personaggi che le popolano, ben si evince che Simenon quella lezione l’ha assorbita in modo egregio. Significativa la riflessione che lo scrittore fa a proposito del prossimo, in linea con le perle di saggezza donategli dalla madre. “Oggi l’etnografia – scrive – cerca le tracce degli uomini di un tempo, i nostri antenati, mentre la biologia, nei laboratori di tutto il mondo, si sforza d conoscere l’uomo attuale. Però non conosciamo le persone della porta accanto, quelle che incrociamo tutti i giorni per la strada, al cui fianco lavoriamo”.
Nell’elaborare il lutto prima che la morte si compia, Simenon, nell’ottica della sua sensibilità, guadagna il privilegio di fruire di un’epifania che gli permette di compenetrarsi con la mente e con il cuore della madre. Un’epifania che, in qualche modo, riscatta il vuoto tra i due duellanti. “Tu mi hai dato il primo latte, tuttavia non ti conosco, come tu non conosci me”, lamenta Simenon all’inizio della confessione. Ma in quegli ultimi giorni, sulla soglia della dipartita, il recupero memoriale, echeggiante la dimensione proustiana, lenisce, e quasi sana, “una ferita dell’animo” che da tempo affliggeva lo scrittore nella sua condizione di figlio.
Prima dell’estremo saluto, Simenon, con controllata commozione, dichiara: “Madre, io non ho niente da rimproverarti. Hai seguito il corso della tua vita con una fedeltà rara, rarissima anzi, al tuo scopo”: ovvero, fare del bene agli altri prima che a sé stessa. E il fatto che questo scopo lo abbia raggiunto rende ora il suo sguardo “sereno”, in quel letto di ospedale: a tratti “vi brilla persino una pagliuzza di ironia”.