Un giorno la potenza e l’autorità di Roma conosceranno il tramonto, ma questa lucida consapevolezza non scalfirà mai la determinazione di servire la causa dell’uomo fino alla fine. Nel libro “Memorie di Adriano” (1951), che è al contempo romanzo, saggio storico e opera di poesia, Marguerite Yourcenar ricostruisce la storia dell’imperatore romano Adriano con l’obiettivo di “rifare dall’interno quello che gli archeologi del secolo scorso hanno fatto dall’esterno”.
Il libro – organizzato in sei parti, tra cui un prologo ed un epilogo – si configura come una luna epistola indirizzata all’imperatore, ormai anziano e malato, al giovane amico Marco Aurelio, che poco dopo diverrà suo nipote adottivo. La scrittrice franco-belga immagina che nella missiva Adriano documenti, con illuminanti riflessioni, le dinamiche della sua vita, pubblica e privata. Perché scegliere proprio questo imperatore per realizzare questa particolare operazione narrativa?
Yourcenar stessa spiega che Adriano calzava perfettamente perché vissuto in un contesto sospeso tra un’epoca in cui ormai non si credeva più negli dei e in cui ancora non si era stabilmente affermato il cristianesimo. Questo passaggio, colto e valorizzato nella sua fluidità, si offriva come un terreno fertile su cui gettare semi di una meditazione, articolata e complessa, diretta a ghermire saldi punti di riferimento a dispetto di un mondo in completa evoluzione.
“Quando prendo in esame la mia vita, mi spaventa di trovarla informe”, afferma Adriano. Tale sentire è motivato dal fatto che mentre l’esistenza degli eroi è “semplice” e va diritta al suo scopo “come una freccia”, quella del comune mortale procede in senso obliquo, è investita da tortuosità e brusche impennate. E’ dunque una rarità, in sede di bilancio, constatare che la propria esistenza risulti esaustiva su tutti i fronti in uno scenario così mobile. “La mia vita – scrive – non ha contorni netti e meglio la definisce quello che non sono stato, buon soldato, non grande uomo di guerra, amatore d’arte, non artista come credette d’essere Nerone alla sua morte”.
L’imperatore sostiene che i grandi uomini emergono in virtù di un atteggiamento “estremo” e che il loro eroismo consiste “nel mantenervisi tutta la vita”. Essi finiscono con il rappresentare “i nostri poli e i nostri antipodi”. Anche Adriano, in realtà, aveva occupato, di volta in volta, tutte le posizioni estreme, ma sottolinea, non ci era rimasto. Quelle posizioni hanno sempre “slittato”. Sul filo dei ricordi, il protagonista, con gli occhi della mente, vede affiorare qua e là “i graniti dell’inevitabile” e dappertutto “le frane del caso”. Adriano vorrebbe ripercorrere la sua esistenza “per ravvisarvi un piano, per individuare una vena di piombo o d’oro, il fluire di un corso d’acqua sotterraneo”.
Tuttavia questo schema fittizio non è “un miraggio della memoria”. La questione di fondo è che all’uomo non è dato far tornare i conti. Qualcosa mancherà sempre. Questo assunto non deve però scoraggiare la ricerca di senso, la quale va comunque alimentata, a patto che a guidarla sia un lucido disincanto. “Di tanto in tanto – confessa l’imperatore – credo di riconoscere la fatalità di un incontro in un presagio, in un determinato susseguirsi di avvenimenti, ma vi sono troppe vie che non conducono in alcun luogo, troppe cifre che a sommarle non danno alcun totale”.
L’impostazione narrativa poteva far degradare la riflessione in uno stucchevole breviario di comportamento. Nell’opera della Yourcenar non c’è, invece, alcuna traccia che rimandi a una dimensione didascalica. Il pensiero di Adriano, da cui derivano stille di saggezza, corre veloce, senza rallentamenti proni all’autocompiacimento o all’autocommiserazione. E’ un pensiero che non si impone, ma si offre con discrezione. E nel momento in cui si manifesta, esso invita il lettore ad un esame introspettivo non certo fine a sé stesso, perché nei moti dell’animo del protagonista è probabile che il singolo individuo si riconosca.
L’imperatore si sofferma sui valori legati alla filosofia e alla musica. Ma è il tema della morte a coinvolgerlo con particolare attrazione. “La meditazione della morte non insegna a morire”, dichiara. Poi scrive: “Penso con disgusto ai tetri simboli delle tombe egizie: l’arido scarabeo, la rigida mummia, la rane dei parti eterni”. Tutte le teorie sull’immortalità gli ispirano diffidenza. Prima di esalare l’ultimo respiro, Adriano si propone di “rivisitare” le cose – gli svaghi consueti, le rive familiari – che non vedrà mai più. Ma c’è un segreto per porsi in costruttiva relazione con la fine del cammino terreno? Per l’’imperatore esso consiste nel “cercare di entrare nella morte a occhi aperti”. Vale a dire, lanciare uno sguardo sull’abisso, uno sguardo che richiede tanto coraggio per poterlo sostenere.